Diceva Mark Twain, "E' più facile ingannare la gente piuttosto che convincerla di essere stata ingannata"
Omero è una continua fonte di frustrazione per gli archeologi, per i filologi e tutti i commentatori... centinaia di pagine con migliaia di nomi, eventi, riferimenti, località ecc. che però finiscono con il confondere le idee anziché aiutarci a chiarirle. Ma se invece la soluzione fosse diversa da quelle faticosamente elaborate nei secoli dai letterati? Perché Omero continuava a lodare l'arte dell'inganno? Perché dormiva... o perché è lui che ha ingannato tutti per 3000 anni? E i miti sono soltanto delle belle favole oppure nascono da eventi reali di cui si comincia solo ora a intravvedere l'origine?

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venerdì 7 ottobre 2016

COM’ERA FATTO L’ARCO DI ULISSE? E PERCHE’ I PROCI NON ERANO IN GRADO DI TENDERLO?


  In un precedente intervento https://astutoomero.blogspot.it/2016/05/parte-prima-chi-come-e-perche.html , abbiamo visto come tutto il racconto dell’Odissea diventi estremamente logico e realistico una volta che si cambi drasticamente la prospettiva della narrazione Omerica. Ulisse non era... Ulisse, ma colui che Ulisse stesso presenta come il migliore degli arcieri achei, cioè Filottete: un mercenario ingaggiato da Telemaco per interpretare il Re di Itaca e liberarsi di tutti i Proci. Esaminiamo ora in questa luce una delle scene più importanti dell’Odissea: quella della sfida con l’arco. Come si ricorderà, i Proci hanno tentato inutilmente di tendere l’arma, ma ora il compito spetta ad Ulisse, o a chi per esso.


Ma ora riprendiamo la nostra storia; eravamo rimasti al drammatico momento della sfida con l'arco: evidentemente, Itaca non era terra di arcieri, infatti nessuno sembra sapere bene cosa fare. Ci provano prima Telemaco e uno dei Proci, ma non riescono neanche a tendere la corda. Solo Antinoo, che ha un pochino più di esperienza, intuisce che l’arco per funzionare deve essere prima scaldato e ingrassato, per cui ordina che sia acceso il fuoco. Ciononostante, tutti i Proci, tranne Eurimaco e Antinoo, i più forti di tutti, provano inutilmente a tenderlo.
A questo punto il mendicante fa un cenno ad Eumeo e Filezio ed esce con loro dalla sala. Ed ecco che “rivela” ai due di essere Ulisse, chiedendo il loro aiuto nel compiere la sua vendetta e promettendo un premio notevole:

All’uno e all’altro darò una sposa, ricchezze darò;
e una casa innalzata accanto alla mia; pel futuro
compagni e fratelli sarete, per me, di Telemaco (XXI, 214-216)

Attenzione: non dice “sarete miei compagni e fratelli” o “sarete come dei figli”, ma “per me sarete compagni e fratelli di Telemaco”. È evidente che quello che parla non è il re di Itaca Ulisse, ma un altro. E per farsi riconoscere scosta i cenci e mette in mostra la cicatrice sul ginocchio: abbiamo già visto come tale “prova” avesse ben poco valore.
Rientrano quindi nella sala, mentre Eurimaco si lamenta di non riuscire a tendere l’arco. Per cui Antinoo, per evitare brutte figure, propone di rinviare la gara all’indomani, con la scusa che, evidentemente, il dio Apollo non vuole che si faccia sfoggio di bravura nel giorno della sua festa.
E allora Filottete, con l’aria più innocente del mondo, chiede di provare anche lui, per vedere se nelle sue stanche membra è rimasto un poco dell’antico vigore. Naturalmente  i Proci si sentono offesi ad essere sfidati da un simile pezzente, ma Penelope interviene ribattendo che se anche lo straniero dovesse riuscire a tendere l’arco, non lo sposerà, ma che gli verranno comunque tributati onori e ricchi doni. Anche Telemaco, tra le urla dei pretendenti, approva. E poi intima alla madre di ritirarsi nelle sue stanze, ordine che Penelope esegue immediatamente senza discutere, mentre il bovaro e il porcaro provvedono a sbarrare le porte per impedire ogni fuga durante la “mattanza”.
Quindi “Ulisse” prende in mano l’arco, cominciando ad esaminarlo e a palparlo accuratamente, tanto che due giovani commentano:

Certo costui era un esperto, un uomo pratico d’archi.
E forse anche lui possiede archi simili in casa (XXI,  397-398)

Chiaramente, nessuno a Itaca aveva mai visto un arco di quel tipo: probabile quindi che Filottete se lo fosse portato dietro da casa. Magari era stato nascosto tra i cosiddetti doni che Menelao aveva fatto a Telemaco: in effetti, quando Penelope lo prende per portarlo nella sala, lo estrae dalla sua custodia, che stava a sua volta in mezzo alle arche contenenti le vesti. Quindi è plausibile che nessuno l’avesse visto mentre veniva introdotto nella reggia. Ma è possibile che un gruppo di baldi giovani in pieno vigore fosse così smidollato da non riuscire a tendere la corda di un arco? Siamo alle prese con un altro intervento divino? Qui probabilmente ci troviamo di fronte a un equivoco interpretativo di natura tecnica, che può essere risolto solo conoscendo alcuni fondamentali particolari costruttivi degli archi antichi. Chi non ha pratica della materia è portato a pensare che un arco sia soltanto un pezzo di legno ricurvo con una corda tesa alle estremità. In realtà, fin dalla remota antichità, esistevano degli archi molto più complessi, costituiti di legno e corno animale, così come descritto da Omero. Ma non solo: la  corda veniva tesa tra le due estremità attraverso un movimento complicato, che consisteva nel tendere con forza, aiutandosi col ginocchio per fare leva, l’arco stesso in senso INVERSO rispetto alla sua curvatura naturale nella posizione di riposo. A quel punto l’arciere infilava la corda, già preparata con due cappi alle estremità, in due scanalature  presenti alle estremità dell’arco stesso. Si otteneva così un’arma dalla tensione e dalla portata notevole. Naturalmente una simile operazione poteva essere espletata correttamente solo da un individuo ben addestrato, e non da dei ragazzotti, è il caso di dirlo, “alle prime armi”. Oltretutto tale tipo di arco non poteva essere tenuto perennemente in tensione, dato che nel giro di pochi giorni avrebbe perso gran parte della sua elasticità e potenza. Se poi davvero si fosse trattato dell’arco di Ulisse, rimasto lì ad ammuffire per vent’anni, avrebbe potuto spezzarsi dopo pochi tiri: un rischio, ovviamente, che non si poteva correre; Omero lo sa bene, e infatti racconta che il suo protagonista osserva con cura l’arma, per controllare che non sia intaccata dai tarli. Certo, se davvero fosse stata tarlata, tutta la terribile “vendetta” di Ulisse sarebbe sprofondata nel ridicolo. Quindi bisogna pensare che l’arco fosse un attrezzo in piena efficienza, e fosse stato introdotto di soppiatto. Ecco dunque che anche questa scena, esaminata con la dovuta attenzione, perde il suo carattere miracoloso per diventare estremamente realistica.
 



 
Come si vede nella foto, le tacche dove andrebbe inserita la corda si trovano ora nel lato INTERNO dell'arco in posizione di riposo, ma verrebbero a trovarsi correttamente all'esterno una volta compiuta l'operazione di ribaltamento. Questi nell’immagine sono al museo medioevale di Bologna, si tratta di armi turche del XVII secolo, ma comunque la tecnologia è rimasta immutata da millenni,  come vediamo in un’anfora del IV secolo avanti Cristo, trovata nel kurgan di Kul'Oba, ora all'Ermitage di San Pietroburgo, che mostra un guerriero scita accovacciato nell'atto di incordare l'arco. Dietro alla schiena si intravede il gorito, la tipica custodia per l’arco e le frecce. In basso, arciere scita, da Vulci, 510 a.C., e schema di funzionamento dell’arco composto (da Le Scienze, agosto 1991).

Tali archi di ridotte dimensioni potevano essere usati stando a cavallo, per cui sono detti di tipo scitico, poiché usati per primi dagli Sciti, popoli nomadi che cavalcavano nel vasto territorio delle steppe dalla Siberia al Mar Nero.

  Una leggenda, raccolta da Erodoto, narra che Ercole aveva concepito tre figli con una misteriosa donna serpente, e le aveva lasciato uno dei suoi due archi affinché lo donasse in eredità a quello dei suoi figli che fosse stato capace di tenderlo. Il vincitore si chiamava appunto Scita (o Scite) e sarebbe stato il capostipite del popolo degli Sciti. Le analogie con le vicende che abbiano raccontato finora sono evidenti. Come spesso succede, i miti tendono a ripetersi in modo simile in luoghi e tempi diversi.

Avevamo visto che la ferita al piede di Filottete era stata causata da un serpente (secondo Omero) o da una delle sue stesse frecce (secondo altre versioni): ma forse una cosa non esclude l'altra! Gli Sciti erano infatti famosi per i veleni che usavano per rendere più letali le loro frecce, che erano preparati con una micidiale mistura di sterco, sangue umano putrefatto e veleno di vipera; per di più le frecce potevano essere munite di uncini che si spezzavano nel corpo della vittima quando si tentava di estrarle: quindi la descrizione della ferita infetta di Filottete, dolorosa, putrida e puzzolente, che può essere guarita solo con una complicata operazione chirurgica, concorda perfettamente con il danno provocato da una freccia scitica. Le guerre chimiche e biologiche non sono una invenzione della modernità! Inoltre, come segnala il Professor Giuseppe Girgenti, l’aggettivo greco «tossico» (τοξικός) non ha nulla a che vedere con la «tosse», perché deriva dal termine greco τόξον, che significa «arco» (ma anche «arcobaleno»), ed era un attributo delle divinità dotate di arco e frecce, vale a dire Apollo, Artemide ed Eros. Eraclito attribuisce ad Apollo l’armonia dell’arco e della lira, e Platone, nel «Cratilo» (405a) sostiene che erano quattro le arti tipiche di Apollo, cioè la «musica» (μουσική), la «profezia» (μαντική), la «medicina» (ἰατρική) e l’«arte tossica» (τοξική), che è appunto l’arte dell’arciere. Ora, era appunto consuetudine nel mondo greco spalmare le punte delle frecce con un veleno, il cosiddetto «farmaco tossico» (τοξικόν φάρμακον), che doveva essere letale in guerra, oppure servire solo a tramortire i grossi animali durante la caccia, come cavalli ed elefanti (come ci raccontano Aristotele, Strabone ed Eliano). Ma da qui l’aggettivo «tossico» è passato a significare qualcosa di velenoso o comunque qualcosa di farmacologico che ha l’effetto di stordire e di tramortire, cioè ogni tipo di droga.

E ora Filottete tende la corda dell’arco, prende la mira, scaglia la freccia e infila al primo colpo gli anelli delle dodici scuri, tra lo stupore generale. E Telemaco gli si mette accanto armato di tutto punto: è tempo di cambiare bersaglio
 
 
POST SCRIPTUM: 
quando guardavo le statistiche delle visite di questo sito, mi chiedevo perché ci fosse tanto interesse sull'arco di Ulisse... poi ho comprato in edicola la TOPODISSEA, che ha ristampato una storia del 2018, e ho capito...

 




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3 commenti:

  1. In merito a "Ora, era appunto consuetudine nel mondo greco spalmare le punte delle frecce con un veleno, il cosiddetto «farmaco tossico» (τοξικόν φάρμακον), che doveva essere letale in guerra ...", Omero nell'iliade ci dice che Achille viene colpito, rimanendo ucciso, al tallone da una freccia scagliata dal principe troiano Paride. Il tallone, secondo il racconto mitologico, sarebbe stato l'unico punto vulnerabile dell'eroe acheo. Ovviamente una freccia, che non sia avvelenata, non può uccidere nessuno colpendo il tallone e da questo non può non dedursi che la freccia di Paride fosse avvelenata come si usava in guerra. E, sempre nell'Iliade, Omero descrive la pandemia, che colpisce gli assedianti di Troia, con l'adirato Apollo, il Dio dall'arco d'argento fa strage di Achei con le sue frecce.. Gli strali di Apollo non possono che intendersi come frecce avvelenate, sia pure divine e immaginarie.

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  2. Attenzione, però, che la vicenda del tallone d'Achille non è narrata in Omero, ma in racconti successivi. Per il resto penso di poter concordare con questa interpretazione.

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  3. e Paride viene spesso rappresentato come un tipico arciere scita! https://archeologiavocidalpassato.com/2020/01/11/novita-al-museo-archeologico-nazionale-di-altino-ve-al-via-il-ciclo-reperto-riscoperto-con-lesposizione-di-oggetti-provenienti-dai-depositi-si-inizia-col-bronzetto-etru/#comments

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