Ma
ora riprendiamo la nostra storia; eravamo rimasti al drammatico momento della
sfida con l'arco: evidentemente, Itaca non era terra di arcieri, infatti nessuno
sembra sapere bene cosa fare. Ci provano prima Telemaco e uno dei Proci, ma non
riescono neanche a tendere la corda. Solo Antinoo, che
ha un pochino più di esperienza, intuisce che l’arco per funzionare deve essere
prima scaldato e ingrassato, per cui ordina che sia acceso il fuoco.
Ciononostante, tutti i Proci, tranne Eurimaco e Antinoo, i più forti di tutti, provano inutilmente a
tenderlo.
A
questo punto il mendicante fa un cenno ad Eumeo e
Filezio ed esce con loro dalla sala. Ed ecco che
“rivela” ai due di essere Ulisse, chiedendo il loro aiuto nel compiere la sua
vendetta e promettendo un premio notevole:
All’uno
e all’altro darò una sposa, ricchezze darò;
e
una casa innalzata accanto alla mia; pel futuro
compagni
e fratelli sarete, per me, di Telemaco (XXI, 214-216)
Attenzione:
non dice “sarete miei compagni e fratelli” o “sarete come dei figli”, ma “per me
sarete compagni e fratelli di Telemaco”. È evidente che quello che parla non è
il re di Itaca Ulisse, ma un altro. E per farsi riconoscere scosta i cenci e
mette in mostra la cicatrice sul ginocchio: abbiamo già visto come tale “prova”
avesse ben poco valore.
Rientrano
quindi nella sala, mentre Eurimaco si lamenta di non riuscire a tendere l’arco.
Per cui Antinoo, per evitare brutte figure, propone di
rinviare la gara all’indomani, con la scusa che, evidentemente, il dio Apollo
non vuole che si faccia sfoggio di bravura nel giorno della sua
festa.
E
allora Filottete, con l’aria più innocente del mondo,
chiede di provare anche lui, per vedere se nelle sue stanche membra è rimasto un
poco dell’antico vigore. Naturalmente i
Proci si sentono offesi ad essere sfidati da un simile pezzente, ma Penelope
interviene ribattendo che se anche lo straniero dovesse riuscire a tendere
l’arco, non lo sposerà , ma che gli verranno comunque tributati onori e ricchi
doni. Anche Telemaco, tra le urla dei pretendenti, approva. E poi intima alla
madre di ritirarsi nelle sue stanze, ordine che Penelope esegue immediatamente
senza discutere, mentre il bovaro e il porcaro provvedono a sbarrare le porte
per impedire ogni fuga durante la “mattanza”.
Quindi
“Ulisse” prende in mano l’arco, cominciando ad esaminarlo e a palparlo
accuratamente, tanto che due giovani commentano:
Certo
costui era un esperto, un uomo pratico d’archi.
E
forse anche lui possiede archi simili in casa (XXI, 397-398)
Chiaramente,
nessuno a Itaca aveva mai visto un arco di quel tipo: probabile quindi che Filottete se lo fosse portato dietro da casa. Magari era
stato nascosto tra i cosiddetti doni che Menelao aveva fatto a Telemaco: in
effetti, quando Penelope lo prende per portarlo nella sala, lo estrae dalla sua
custodia, che stava a sua volta in mezzo alle arche contenenti le vesti. Quindi
è plausibile che nessuno l’avesse visto mentre veniva introdotto nella reggia.
Ma è possibile che un gruppo di baldi giovani in pieno vigore fosse così
smidollato da non riuscire a tendere la corda di un arco? Siamo alle prese con
un altro intervento divino? Qui probabilmente ci troviamo di fronte a un
equivoco interpretativo di natura tecnica, che può essere risolto solo
conoscendo alcuni fondamentali particolari costruttivi degli archi antichi. Chi
non ha pratica della materia è portato a pensare che un arco sia soltanto un
pezzo di legno ricurvo con una corda tesa alle estremità . In realtà , fin dalla
remota antichità , esistevano degli archi molto più complessi, costituiti di
legno e corno animale, così come descritto da Omero. Ma non solo: la corda veniva tesa tra le due estremitÃ
attraverso un movimento complicato, che consisteva nel tendere con forza,
aiutandosi col ginocchio per fare leva, l’arco stesso in senso INVERSO rispetto
alla sua curvatura naturale nella posizione di riposo. A quel punto l’arciere
infilava la corda, già preparata con due cappi alle estremità , in due
scanalature presenti alle estremitÃ
dell’arco stesso. Si otteneva così un’arma dalla tensione e dalla portata
notevole. Naturalmente una simile operazione poteva essere espletata
correttamente solo da un individuo ben addestrato, e non da dei ragazzotti, è il
caso di dirlo, “alle prime armi”. Oltretutto tale tipo di arco non poteva essere
tenuto perennemente in tensione, dato che nel giro di pochi giorni avrebbe perso
gran parte della sua elasticità e potenza. Se poi davvero si fosse trattato
dell’arco di Ulisse, rimasto lì ad ammuffire per vent’anni, avrebbe potuto
spezzarsi dopo pochi tiri: un rischio, ovviamente, che non si poteva correre;
Omero lo sa bene, e infatti racconta che il suo protagonista osserva con cura
l’arma, per controllare che non sia intaccata dai tarli. Certo, se davvero fosse
stata tarlata, tutta la terribile “vendetta” di Ulisse sarebbe sprofondata nel
ridicolo. Quindi bisogna pensare che l’arco fosse un attrezzo in piena
efficienza, e fosse stato introdotto di soppiatto. Ecco dunque che anche questa
scena, esaminata con la dovuta attenzione, perde il suo carattere miracoloso per
diventare estremamente realistica.