In un precedente intervento https://astutoomero.blogspot.it/2016/05/parte-prima-chi-come-e-perche.html ,
abbiamo visto come tutto il racconto dell’Odissea diventi estremamente
logico e realistico una volta che si cambi drasticamente la prospettiva
della narrazione Omerica. Ulisse non era... Ulisse, ma colui che Ulisse
stesso presenta come il migliore degli arcieri achei, cioè Filottete: un
mercenario ingaggiato da Telemaco per interpretare il Re di Itaca e
liberarsi di tutti i Proci. Esaminiamo ora in questa luce una delle
scene più importanti dell’Odissea: quella della sfida con l’arco. Come
si ricorderà, i Proci hanno tentato inutilmente di tendere l’arma, ma
ora il compito spetta ad Ulisse, o a chi per esso.
Ma
ora riprendiamo la nostra storia; eravamo rimasti al drammatico momento della
sfida con l'arco: evidentemente, Itaca non era terra di arcieri, infatti nessuno
sembra sapere bene cosa fare. Ci provano prima Telemaco e uno dei Proci, ma non
riescono neanche a tendere la corda. Solo Antinoo, che
ha un pochino più di esperienza, intuisce che l’arco per funzionare deve essere
prima scaldato e ingrassato, per cui ordina che sia acceso il fuoco.
Ciononostante, tutti i Proci, tranne Eurimaco e Antinoo, i più forti di tutti, provano inutilmente a
tenderlo.
A
questo punto il mendicante fa un cenno ad Eumeo e
Filezio ed esce con loro dalla sala. Ed ecco che
“rivela” ai due di essere Ulisse, chiedendo il loro aiuto nel compiere la sua
vendetta e promettendo un premio notevole:
All’uno
e all’altro darò una sposa, ricchezze darò;
e
una casa innalzata accanto alla mia; pel futuro
compagni
e fratelli sarete, per me, di Telemaco (XXI, 214-216)
Attenzione:
non dice “sarete miei compagni e fratelli” o “sarete come dei figli”, ma “per me
sarete compagni e fratelli di Telemaco”. È evidente che quello che parla non è
il re di Itaca Ulisse, ma un altro. E per farsi riconoscere scosta i cenci e
mette in mostra la cicatrice sul ginocchio: abbiamo già visto come tale “prova”
avesse ben poco valore.
Rientrano
quindi nella sala, mentre Eurimaco si lamenta di non riuscire a tendere l’arco.
Per cui Antinoo, per evitare brutte figure, propone di
rinviare la gara all’indomani, con la scusa che, evidentemente, il dio Apollo
non vuole che si faccia sfoggio di bravura nel giorno della sua
festa.
E
allora Filottete, con l’aria più innocente del mondo,
chiede di provare anche lui, per vedere se nelle sue stanche membra è rimasto un
poco dell’antico vigore. Naturalmente i
Proci si sentono offesi ad essere sfidati da un simile pezzente, ma Penelope
interviene ribattendo che se anche lo straniero dovesse riuscire a tendere
l’arco, non lo sposerà, ma che gli verranno comunque tributati onori e ricchi
doni. Anche Telemaco, tra le urla dei pretendenti, approva. E poi intima alla
madre di ritirarsi nelle sue stanze, ordine che Penelope esegue immediatamente
senza discutere, mentre il bovaro e il porcaro provvedono a sbarrare le porte
per impedire ogni fuga durante la “mattanza”.
Quindi
“Ulisse” prende in mano l’arco, cominciando ad esaminarlo e a palparlo
accuratamente, tanto che due giovani commentano:
Certo
costui era un esperto, un uomo pratico d’archi.
E
forse anche lui possiede archi simili in casa (XXI, 397-398)
Chiaramente,
nessuno a Itaca aveva mai visto un arco di quel tipo: probabile quindi che Filottete se lo fosse portato dietro da casa. Magari era
stato nascosto tra i cosiddetti doni che Menelao aveva fatto a Telemaco: in
effetti, quando Penelope lo prende per portarlo nella sala, lo estrae dalla sua
custodia, che stava a sua volta in mezzo alle arche contenenti le vesti. Quindi
è plausibile che nessuno l’avesse visto mentre veniva introdotto nella reggia.
Ma è possibile che un gruppo di baldi giovani in pieno vigore fosse così
smidollato da non riuscire a tendere la corda di un arco? Siamo alle prese con
un altro intervento divino? Qui probabilmente ci troviamo di fronte a un
equivoco interpretativo di natura tecnica, che può essere risolto solo
conoscendo alcuni fondamentali particolari costruttivi degli archi antichi. Chi
non ha pratica della materia è portato a pensare che un arco sia soltanto un
pezzo di legno ricurvo con una corda tesa alle estremità. In realtà, fin dalla
remota antichità, esistevano degli archi molto più complessi, costituiti di
legno e corno animale, così come descritto da Omero. Ma non solo: la corda veniva tesa tra le due estremità
attraverso un movimento complicato, che consisteva nel tendere con forza,
aiutandosi col ginocchio per fare leva, l’arco stesso in senso INVERSO rispetto
alla sua curvatura naturale nella posizione di riposo. A quel punto l’arciere
infilava la corda, già preparata con due cappi alle estremità, in due
scanalature presenti alle estremità
dell’arco stesso. Si otteneva così un’arma dalla tensione e dalla portata
notevole. Naturalmente una simile operazione poteva essere espletata
correttamente solo da un individuo ben addestrato, e non da dei ragazzotti, è il
caso di dirlo, “alle prime armi”. Oltretutto tale tipo di arco non poteva essere
tenuto perennemente in tensione, dato che nel giro di pochi giorni avrebbe perso
gran parte della sua elasticità e potenza. Se poi davvero si fosse trattato
dell’arco di Ulisse, rimasto lì ad ammuffire per vent’anni, avrebbe potuto
spezzarsi dopo pochi tiri: un rischio, ovviamente, che non si poteva correre;
Omero lo sa bene, e infatti racconta che il suo protagonista osserva con cura
l’arma, per controllare che non sia intaccata dai tarli. Certo, se davvero fosse
stata tarlata, tutta la terribile “vendetta” di Ulisse sarebbe sprofondata nel
ridicolo. Quindi bisogna pensare che l’arco fosse un attrezzo in piena
efficienza, e fosse stato introdotto di soppiatto. Ecco dunque che anche questa
scena, esaminata con la dovuta attenzione, perde il suo carattere miracoloso per
diventare estremamente realistica.
Come
si vede nella foto, le tacche dove andrebbe inserita la corda si trovano ora nel
lato INTERNO dell'arco in posizione di riposo, ma verrebbero a trovarsi
correttamente all'esterno una volta compiuta l'operazione di ribaltamento.
Questi nell’immagine sono al museo medioevale di Bologna, si tratta di armi
turche del XVII secolo, ma comunque la tecnologia è rimasta immutata da
millenni, come vediamo in un’anfora del
IV secolo avanti Cristo, trovata nel kurgan di Kul'Oba, ora all'Ermitage di San
Pietroburgo, che mostra un guerriero scita accovacciato nell'atto di incordare
l'arco. Dietro alla schiena si intravede il gorito, la
tipica custodia per l’arco e le frecce. In basso, arciere scita, da Vulci, 510
a.C., e schema di funzionamento dell’arco composto (da Le Scienze, agosto
1991).
Tali
archi di ridotte dimensioni potevano essere usati stando a cavallo,
per cui sono detti di tipo scitico, poiché usati per primi dagli
Sciti, popoli nomadi che cavalcavano nel vasto territorio delle
steppe dalla Siberia al Mar Nero.
Una
leggenda, raccolta da Erodoto, narra che Ercole aveva concepito tre figli con
una misteriosa donna serpente, e le aveva lasciato uno dei suoi due archi
affinché lo donasse in eredità a quello dei suoi figli che fosse stato capace di
tenderlo. Il vincitore si chiamava appunto Scita (o Scite) e sarebbe stato il
capostipite del popolo degli Sciti. Le analogie con le vicende che abbiano
raccontato finora sono evidenti. Come spesso succede, i miti tendono a ripetersi
in modo simile in luoghi e tempi diversi.
Avevamo visto che la ferita al
piede di Filottete era stata causata da un serpente (secondo Omero) o da una
delle sue stesse frecce (secondo altre versioni): ma forse una cosa non esclude
l'altra! Gli Sciti erano infatti famosi per i veleni che usavano per rendere
più letali le loro frecce, che erano preparati con una micidiale mistura di
sterco, sangue umano putrefatto e veleno di vipera; per di più le frecce
potevano essere munite di uncini che si spezzavano nel corpo della vittima
quando si tentava di estrarle: quindi la descrizione della ferita infetta di
Filottete, dolorosa, putrida e puzzolente, che può essere guarita solo con una
complicata operazione chirurgica, concorda perfettamente con il danno provocato
da una freccia scitica. Le guerre chimiche e biologiche non sono una invenzione
della modernità! Inoltre, come segnala il Professor Giuseppe
Girgenti, l’aggettivo greco «tossico»
(τοξικός) non ha nulla a che vedere con la «tosse», perché
deriva dal termine greco τόξον, che significa «arco» (ma anche
«arcobaleno»), ed era un attributo delle divinità dotate di arco e
frecce, vale a dire Apollo, Artemide ed Eros. Eraclito attribuisce ad
Apollo l’armonia dell’arco e della lira, e Platone, nel «Cratilo»
(405a) sostiene che erano quattro le arti tipiche di Apollo, cioè la
«musica» (μουσική), la «profezia» (μαντική), la
«medicina» (ἰατρική) e l’«arte tossica» (τοξική),
che è appunto l’arte dell’arciere. Ora, era appunto
consuetudine nel mondo greco spalmare le
punte delle frecce con un veleno, il cosiddetto «farmaco tossico»
(τοξικόν φάρμακον), che doveva essere letale in
guerra, oppure servire solo a tramortire i grossi animali durante la
caccia, come cavalli ed elefanti (come ci raccontano Aristotele,
Strabone ed Eliano). Ma da qui l’aggettivo «tossico» è passato a
significare qualcosa di velenoso o comunque qualcosa di farmacologico
che ha l’effetto di stordire e di tramortire, cioè ogni tipo di
droga.
E
ora Filottete tende la corda dell’arco, prende la
mira, scaglia la freccia e infila al primo colpo gli anelli delle dodici scuri,
tra lo stupore generale. E Telemaco gli si mette accanto armato di tutto punto:
è tempo di cambiare bersaglio
POST SCRIPTUM: quando guardavo le statistiche delle visite di questo sito, mi chiedevo perché ci fosse tanto interesse sull'arco di Ulisse... poi ho comprato in edicola la TOPODISSEA, che ha ristampato una storia del 2018, e ho capito...
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