Diceva Mark Twain, "E' più facile ingannare la gente piuttosto che convincerla di essere stata ingannata"
Omero è una continua fonte di frustrazione per gli archeologi, per i filologi e tutti i commentatori... centinaia di pagine con migliaia di nomi, eventi, riferimenti, località ecc. che però finiscono con il confondere le idee anziché aiutarci a chiarirle. Ma se invece la soluzione fosse diversa da quelle faticosamente elaborate nei secoli dai letterati? Perché Omero continuava a lodare l'arte dell'inganno? Perché dormiva... o perché è lui che ha ingannato tutti per 3000 anni? E i miti sono soltanto delle belle favole oppure nascono da eventi reali di cui si comincia solo ora a intravvedere l'origine?

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sabato 29 ottobre 2016

Capitolo 19 – ULIVI, ABETI, CICLOPI & MAMMUT

ULIVI, ABETI, CICLOPI & MAMMUT

POLIFEMO


Di Alberto Majrani


In un precedente intervento 
(https://ilmulinodeltempo.blogspot.com/2011/05/laltro-ulisse.html), abbiamo visto come tutto il racconto dell’Odissea diventi estremamente logico e realistico una volta che si cambi drasticamente la prospettiva della narrazione Omerica, anche spostandone l’origine nel nord Europa. Vediamo ora alcuni esempi di tipo botanico e zoologico, sempre tratti dal saggio di Alberto Majrani “L'ASTUTO OMERO”
[...] Esaminiamo il caso dell’ulivo, nominato più volte nei poemi. 






 

Si può ritenere che, durante l’optimum climatico postglaciale, il clima consentisse la coltivazione di questa pianta nel Nord Europa, analogamente a ciò che avviene oggi sulle sponde dei laghi lombardi. Il che è plausibile: tuttavia in Omero l’ulivo è una pianta ben strana, dato che ha le foglie sottili, vegeta in luoghi umidi, e che serve per fare attrezzi, oppure pali, come quello che acceca Polifemo, che viene descritto grande e diritto come l’albero di una nave; alcuni studiosi ritengono che ci sia stata una correzione di certe parole della lingua omerica (il dialetto ionico) per rendere più “comprensibili” certi termini: quindi può darsi che l’“ulivo” omerico fosse in realtà un’altra pianta, come un abete, il cui nome greco (elate) assomiglia parecchio a quello dell’ulivo (elaia, o elaie). Dato che nel clima nordico gli abeti crescono al livello del mare, mentre nel Mediterraneo no, qualche antichissimo copista, ignorando l’origine nordica del poema, può aver pensato bene di correggere quella strana anomalia botanica. Ma questo è uno dei pochissimi casi in cui si può pensare a una piccola modifica del testo originale, avvenuta in epoca successiva alla prima stesura, a differenza della miriade di casi che si è obbligati a immaginare con le tradizionali interpretazioni. Ma è logico pensare che l’albero di una nave sia fatto con un tronco di abete, e non certo di ulivo, che è quasi sempre contorto e nodoso. Ancora pochi secoli fa, la Repubblica di Venezia (che comprendeva anche le zone montane del Trentino) prevedeva la pena di morte per chi avesse tagliato una pianta di abete senza permesso, perché ciò avrebbe compromesso la fonte primaria su cui si basava il dominio dei mari. Anche il famoso letto di Penelope, su cui Ulisse aveva compiuto un complicato lavoro di traforo, ha l’aria di essere ricavato da un possente abete e non da un tronco d’ulivo, che è duro, fibroso e poco adatto a questa lavorazione con un rozzo trapano manuale dell’età del bronzo. Mentre per costruire la sua zattera sull'isola di Ogigia, Ulisse va a tagliare proprio degli abeti; anche nell'Iliade, la cosiddetta “tenda” di Achille (che andrebbe forse tradotta con “baracca”, sia pur di lusso), che si trovava sulla spiaggia, era stata costruita con robusti tronchi di abete (Il. XXIV,450), e in entrambi i casi non è stata fatta alcuna correzione. Ma non si può certo pensare che gli Achei si fossero portati tutto il materiale via nave, e neanche che avessero compiuto un’escursione di parecchie centinaia di metri di altitudine in territorio nemico per abbattere gli alberi necessari e trasportarli fino al livello del mare: dovevano aver usato qualcosa che si trovava a portata di mano. Le diverse specie mediterranee di abeti attualmente non crescono al di sotto dei 700 metri di quota. Non potevano scendere di molto in periodi più freddi, se non andiamo indietro fino nell'era glaciale, che mi sembra un tantino lontana dall’epoca omerica. Alle latitudini mediterranee a livello del mare ci sono pini marittimi, pini domestici o pini d’Aleppo, ma non abeti. Chi non conosce la botanica crede che pini e abeti siano piante molto simili, difficili da distinguere, ma non è così. In greco pino e abete si chiamano in modo molto diverso, anche se a volte qualcuno ha usato erroneamente il termine elate per indicare il pino; però, in ogni caso, non è chiaro per quale motivo Omero, o chi per lui, avrebbe dovuto cambiare un abete, o un pino, in un olivo, visto che la descrizione non corrisponde, dato che non si fanno palizzate con alberi contorti, e men che mai se sono specie che producono preziosi alimenti come le olive. Gli antichi conoscevano e distinguevano le piante molto meglio di noi moderni, perché per loro le competenze botaniche erano di importanza vitale. Quindi la spiegazione più logica è che Omero parlasse di abeti, che qualche copista ha trasformato in ulivi, e che qualche altro commentatore o traduttore abbia pensato erroneamente che gli “abeti” a livello del mare fossero in realtà dei pini, facendo finire questo errore anche sui vocabolari e perpetuandolo fino ai giorni nostri.






 Si aggiunga che Omero non parla mai di “olive” e che spesso parla di olio, che però non viene mai usato per usi alimentari, ma solo per ungere il corpo. Ammesso che non fosse addirittura un prodotto d’importazione, c’è da chiedersi che tipo di olio fosse; il mio sospetto è che potesse trattarsi di un olio di lino, visto che c’è un passo che mette in relazione la tessitura con l’olio:



Dalle tele in lavoro goccia limpido l’olio  (Od., VII, 107)



Ma non è neanche da escludersi un olio animale, di foca o di fegato di merluzzo, se non addirittura di balena; una lastra della tomba di Kivik mostra proprio un cetaceo infilzato da numerosi arpioni. A questo proposito, possiamo notare che nell'antichità gli arpioni e gli ami erano fatti di osso o di corno, e c'è infatti un verso, che aveva suscitato molte arzigogolate interpretazioni, che fa riferimento a un corno di bue selvatico usato per pescare (Od., XII, 253).





Un discorso analogo va fatto per il loto, la pianta che dà l’oblio di cui Omero parla nel nono libro; anche in questo caso l’identificazione con la pianta sacra che cresce nel Nilo, localmente chiamata “seshen”, è un’elucubrazione dei geografi greci. Il nome "loto" in realtà viene dato ad un gran numero di specie vegetali, tra loro diversissime; inoltre il loto dell’Odissea potrebbe anche essere una pianta di cui si è persa l’identificazione, se non un’invenzione di Omero. Che la terra dei lotofagi potesse essere la regione scozzese del Lothian, o la Lettonia?

Ritornando a parlare di Polifemo, miti simili si ritrovano con qualche variazione in parecchie saghe nordiche; molti studiosi attribuiscono la nascita del mito dei Ciclopi al ritrovamento, da parte dei marinai dell’antichità, dei crani degli elefanti, in cui l’ampia fossa nasale di forma ellittica induce a pensare alla presenza di un unico grande occhio in mezzo alla fronte. Ed aggiungono che sulle isole del Mediterraneo erano presenti degli elefanti nani, estintisi in epoca preistorica, i cui resti potrebbero avere originato la leggenda dei giganti con un solo occhio. Io, da buon naturalista, ho fatto alcuni calcoli: il cranio di un elefante nano è lungo circa mezzo metro, e fatte le debite proporzioni, un uomo con un cranio simile dovrebbe essere alto all’incirca 4 o 5 metri. Non male per un gigante, ma troppo poco per terrorizzare un gruppo di valorosi guerrieri, né tantomeno per prenderli a due per volta nelle mani “come cuccioli” e sbatacchiarli brutalmente. Per far ciò bisognerebbe essere alti almeno il doppio, ed avere perciò il cranio di almeno un metro, come quello di un mammut! Quindi anche in questo caso il discorso fila: Polifemo aveva il cranio non di un raro elefante nano insulare, ma di un ben più grande e comune mammut, animale di cui si era perso il ricordo all’epoca, essendo  ormai estinto da tempo,  e del quale non è difficile tuttora trovare i resti nelle regioni nordiche! Ancora in tempi relativamente recenti, nel 1613, le ossa fossili di un  Mastodonte o di un Deinotherium, lontano parente dei mammut, furono portati in giro per tutta la Francia facendo credere che si trattasse dello scheletro del possente re dei Teutoni chiamato Teutobod  (o Teutobochus), che peraltro sarebbe morto prigioniero a Roma. In molte altre località europee i crani fossili di giganteschi animali preistorici dettero origini a leggende su draghi, giganti e mostri consimili. Un vaso corinto del 550 avanti Cristo rappresenta un combattimento tra Eracle e un mostro con un tipico cranio fossile, riconoscibile come quello di un Samotherium, un antenato della giraffa, estintosi 5 milioni di anni fa. Le immagini dei grifoni hanno molte somiglianze con i crani dei giganteschi Triceratops, dinosauri estintisi alla fine del Cretacico, 65 milioni di anni fa.





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Scheletri di mammut, Parigi, Museo di Storia Naturale
 Vaso greco del VI secolo a.C. con rappresentazione di un cranio fossile, Museum of Fine Arts, Boston (copertina di un libro di Adrienne Mayor). Confronto tra un femore di mammut e un femore umano (
credit line: fossil femur Palaeoloxodon antiquus compared to human femur, photo by M. Pajuelo, courtesy of Ana Pinto, fig. 2.8 "The First Fossil Hunters" by Adrienne Mayor, used with permission.)
Altre foto di Alberto Majrani www.photomajrani.it
Le foto sono state scattate al Museo di Storia Naturale di Parigi e al  museo di Sperlonga

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