Diceva Mark Twain, "E' più facile ingannare la gente piuttosto che convincerla di essere stata ingannata"
Omero è una continua fonte di frustrazione per gli archeologi, per i filologi e tutti i commentatori... centinaia di pagine con migliaia di nomi, eventi, riferimenti, località ecc. che però finiscono con il confondere le idee anziché aiutarci a chiarirle. Ma se invece la soluzione fosse diversa da quelle faticosamente elaborate nei secoli dai letterati? Perché Omero continuava a lodare l'arte dell'inganno? Perché dormiva... o perché è lui che ha ingannato tutti per 3000 anni? E i miti sono soltanto delle belle favole oppure nascono da eventi reali di cui si comincia solo ora a intravvedere l'origine?

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sabato 29 ottobre 2016

Capitolo 19 – ULIVI, ABETI, CICLOPI & MAMMUT

ULIVI, ABETI, CICLOPI & MAMMUT

POLIFEMO


Di Alberto Majrani


In un precedente intervento 
(https://ilmulinodeltempo.blogspot.com/2011/05/laltro-ulisse.html), abbiamo visto come tutto il racconto dell’Odissea diventi estremamente logico e realistico una volta che si cambi drasticamente la prospettiva della narrazione Omerica, anche spostandone l’origine nel nord Europa. Vediamo ora alcuni esempi di tipo botanico e zoologico, sempre tratti dal saggio di Alberto Majrani “L'ASTUTO OMERO”
[...] Esaminiamo il caso dell’ulivo, nominato più volte nei poemi. 






 

Si può ritenere che, durante l’optimum climatico postglaciale, il clima consentisse la coltivazione di questa pianta nel Nord Europa, analogamente a ciò che avviene oggi sulle sponde dei laghi lombardi. Il che è plausibile: tuttavia in Omero l’ulivo è una pianta ben strana, dato che ha le foglie sottili, vegeta in luoghi umidi, e che serve per fare attrezzi, oppure pali, come quello che acceca Polifemo, che viene descritto grande e diritto come l’albero di una nave; alcuni studiosi ritengono che ci sia stata una correzione di certe parole della lingua omerica (il dialetto ionico) per rendere più “comprensibili” certi termini: quindi può darsi che l’“ulivo” omerico fosse in realtà un’altra pianta, come un abete, il cui nome greco (elate) assomiglia parecchio a quello dell’ulivo (elaia, o elaie). Dato che nel clima nordico gli abeti crescono al livello del mare, mentre nel Mediterraneo no, qualche antichissimo copista, ignorando l’origine nordica del poema, può aver pensato bene di correggere quella strana anomalia botanica. Ma questo è uno dei pochissimi casi in cui si può pensare a una piccola modifica del testo originale, avvenuta in epoca successiva alla prima stesura, a differenza della miriade di casi che si è obbligati a immaginare con le tradizionali interpretazioni. Ma è logico pensare che l’albero di una nave sia fatto con un tronco di abete, e non certo di ulivo, che è quasi sempre contorto e nodoso. Ancora pochi secoli fa, la Repubblica di Venezia (che comprendeva anche le zone montane del Trentino) prevedeva la pena di morte per chi avesse tagliato una pianta di abete senza permesso, perché ciò avrebbe compromesso la fonte primaria su cui si basava il dominio dei mari. Anche il famoso letto di Penelope, su cui Ulisse aveva compiuto un complicato lavoro di traforo, ha l’aria di essere ricavato da un possente abete e non da un tronco d’ulivo, che è duro, fibroso e poco adatto a questa lavorazione con un rozzo trapano manuale dell’età del bronzo. Mentre per costruire la sua zattera sull'isola di Ogigia, Ulisse va a tagliare proprio degli abeti; anche nell'Iliade, la cosiddetta “tenda” di Achille (che andrebbe forse tradotta con “baracca”, sia pur di lusso), che si trovava sulla spiaggia, era stata costruita con robusti tronchi di abete (Il. XXIV,450), e in entrambi i casi non è stata fatta alcuna correzione. Ma non si può certo pensare che gli Achei si fossero portati tutto il materiale via nave, e neanche che avessero compiuto un’escursione di parecchie centinaia di metri di altitudine in territorio nemico per abbattere gli alberi necessari e trasportarli fino al livello del mare: dovevano aver usato qualcosa che si trovava a portata di mano. Le diverse specie mediterranee di abeti attualmente non crescono al di sotto dei 700 metri di quota. Non potevano scendere di molto in periodi più freddi, se non andiamo indietro fino nell'era glaciale, che mi sembra un tantino lontana dall’epoca omerica. Alle latitudini mediterranee a livello del mare ci sono pini marittimi, pini domestici o pini d’Aleppo, ma non abeti. Chi non conosce la botanica crede che pini e abeti siano piante molto simili, difficili da distinguere, ma non è così. In greco pino e abete si chiamano in modo molto diverso, anche se a volte qualcuno ha usato erroneamente il termine elate per indicare il pino; però, in ogni caso, non è chiaro per quale motivo Omero, o chi per lui, avrebbe dovuto cambiare un abete, o un pino, in un olivo, visto che la descrizione non corrisponde, dato che non si fanno palizzate con alberi contorti, e men che mai se sono specie che producono preziosi alimenti come le olive. Gli antichi conoscevano e distinguevano le piante molto meglio di noi moderni, perché per loro le competenze botaniche erano di importanza vitale. Quindi la spiegazione più logica è che Omero parlasse di abeti, che qualche copista ha trasformato in ulivi, e che qualche altro commentatore o traduttore abbia pensato erroneamente che gli “abeti” a livello del mare fossero in realtà dei pini, facendo finire questo errore anche sui vocabolari e perpetuandolo fino ai giorni nostri.






 Si aggiunga che Omero non parla mai di “olive” e che spesso parla di olio, che però non viene mai usato per usi alimentari, ma solo per ungere il corpo. Ammesso che non fosse addirittura un prodotto d’importazione, c’è da chiedersi che tipo di olio fosse; il mio sospetto è che potesse trattarsi di un olio di lino, visto che c’è un passo che mette in relazione la tessitura con l’olio:



Dalle tele in lavoro goccia limpido l’olio  (Od., VII, 107)



Ma non è neanche da escludersi un olio animale, di foca o di fegato di merluzzo, se non addirittura di balena; una lastra della tomba di Kivik mostra proprio un cetaceo infilzato da numerosi arpioni. A questo proposito, possiamo notare che nell'antichità gli arpioni e gli ami erano fatti di osso o di corno, e c'è infatti un verso, che aveva suscitato molte arzigogolate interpretazioni, che fa riferimento a un corno di bue selvatico usato per pescare (Od., XII, 253).





Un discorso analogo va fatto per il loto, la pianta che dà l’oblio di cui Omero parla nel nono libro; anche in questo caso l’identificazione con la pianta sacra che cresce nel Nilo, localmente chiamata “seshen”, è un’elucubrazione dei geografi greci. Il nome "loto" in realtà viene dato ad un gran numero di specie vegetali, tra loro diversissime; inoltre il loto dell’Odissea potrebbe anche essere una pianta di cui si è persa l’identificazione, se non un’invenzione di Omero. Che la terra dei lotofagi potesse essere la regione scozzese del Lothian, o la Lettonia?

Ritornando a parlare di Polifemo, miti simili si ritrovano con qualche variazione in parecchie saghe nordiche; molti studiosi attribuiscono la nascita del mito dei Ciclopi al ritrovamento, da parte dei marinai dell’antichità, dei crani degli elefanti, in cui l’ampia fossa nasale di forma ellittica induce a pensare alla presenza di un unico grande occhio in mezzo alla fronte. Ed aggiungono che sulle isole del Mediterraneo erano presenti degli elefanti nani, estintisi in epoca preistorica, i cui resti potrebbero avere originato la leggenda dei giganti con un solo occhio. Io, da buon naturalista, ho fatto alcuni calcoli: il cranio di un elefante nano è lungo circa mezzo metro, e fatte le debite proporzioni, un uomo con un cranio simile dovrebbe essere alto all’incirca 4 o 5 metri. Non male per un gigante, ma troppo poco per terrorizzare un gruppo di valorosi guerrieri, né tantomeno per prenderli a due per volta nelle mani “come cuccioli” e sbatacchiarli brutalmente. Per far ciò bisognerebbe essere alti almeno il doppio, ed avere perciò il cranio di almeno un metro, come quello di un mammut! Quindi anche in questo caso il discorso fila: Polifemo aveva il cranio non di un raro elefante nano insulare, ma di un ben più grande e comune mammut, animale di cui si era perso il ricordo all’epoca, essendo  ormai estinto da tempo,  e del quale non è difficile tuttora trovare i resti nelle regioni nordiche! Ancora in tempi relativamente recenti, nel 1613, le ossa fossili di un  Mastodonte o di un Deinotherium, lontano parente dei mammut, furono portati in giro per tutta la Francia facendo credere che si trattasse dello scheletro del possente re dei Teutoni chiamato Teutobod  (o Teutobochus), che peraltro sarebbe morto prigioniero a Roma. In molte altre località europee i crani fossili di giganteschi animali preistorici dettero origini a leggende su draghi, giganti e mostri consimili. Un vaso corinto del 550 avanti Cristo rappresenta un combattimento tra Eracle e un mostro con un tipico cranio fossile, riconoscibile come quello di un Samotherium, un antenato della giraffa, estintosi 5 milioni di anni fa. Le immagini dei grifoni hanno molte somiglianze con i crani dei giganteschi Triceratops, dinosauri estintisi alla fine del Cretacico, 65 milioni di anni fa.





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Scheletri di mammut, Parigi, Museo di Storia Naturale
 Vaso greco del VI secolo a.C. con rappresentazione di un cranio fossile, Museum of Fine Arts, Boston (copertina di un libro di Adrienne Mayor). Confronto tra un femore di mammut e un femore umano (
credit line: fossil femur Palaeoloxodon antiquus compared to human femur, photo by M. Pajuelo, courtesy of Ana Pinto, fig. 2.8 "The First Fossil Hunters" by Adrienne Mayor, used with permission.)
Altre foto di Alberto Majrani www.photomajrani.it
Le foto sono state scattate al Museo di Storia Naturale di Parigi e al  museo di Sperlonga

venerdì 21 ottobre 2016

Capitolo 18 - Il sole e l’altre stelle. Quando le orse avevano la coda

Stelle, costellazioni e animali: Quando le orse avevano la coda
di Alberto Majrani


Nelle classiche rappresentazioni del firmamento ci sono sia animali reali, come l'ariete o il leone, che immaginari, come il drago o il capricorno, come viceversa mancano animali importantissimi, pensiamo al gatto, al cinghiale o al cervo. Il cavallo appare come Pegaso, il cavallo alato, mentre il gatto fu proposto senza molto successo solo nel 1799. C'è infine una strana anomalia che riguarda la costellazione dell'Orsa, che come è noto… sono due: l'Orsa Minore,
che è quella vicina al polo nord celeste (una delle sue stelle è la Stella Polare), e l'Orsa Maggiore,
che è una delle costellazioni più evidenti e facilmente riconoscibili, nota fin dalla più remota antichità e chiamata anche con vari altri nomi, come il Grande Carro, l'Aratro, il Mestolo, la Bara e altro ancora. Entrambe le costellazioni sono  costituite da un gruppo di quattro stelle disposte in forma trapezoidale, che costituirebbero il corpo dell'animale, e altre tre stelle quasi allineate che rappresenterebbero la coda.


Il problema è che gli appartenenti alla famiglia zoologica degli Ursidi non hanno la coda! O quantomeno  ne hanno una molto  breve, tanto che già in alcune mitologie antiche le tre stelle della coda sono state trasformate in tre cacciatori che inseguono l'orsa. Una volta credevo che le tre stelle rappresentassero la testa e il collo dell'orsa, solo che poi il cielo stellato ruota nel senso sbagliato e quindi questa povera bestia dovrebbe camminare all'indietro! Con tutti gli animali dotati di coda e quattro zampe, gatti, cani, linci, volpi eccetera, perché mai avrebbero dovuto inventarsi ben due orse con la coda? Non ha molto senso. E quindi magari l'Orsa… non è un'orsa!

Mi sembra già di sentire un coro indignato: "Diavolo di un Majrani, non sei mai contento? Non ti è bastato raccontarci che Ulisse non era Ulisse e che Troia non era Troia, ora ti vuoi mettere pure a ristrutturare l'Universo? Ma chi ti credi di essere!?". Eh, sì, del resto quello di potersi divertire a spaziare liberamente tra varie ipotesi, anche apparentemente astruse, è uno dei (pochi) vantaggi concessi a chi non è costretto ad uniformarsi alle rigide regole dell'ortodossia accademica. Certo, sembra un po' strano, però, se si guarda bene, non c'è apparentemente motivo perché si debba affibbiare una coda ad un'orsa;  un conto è attaccare le ali ad un cavallo, ad indicare un animale particolarmente veloce con doti straordinarie di saltatore, che sembra volare, ma la coda ad un'orsa a cosa potrebbe servire? E poi, perché mai avremmo a che fare con due femmine di  orso, e mai un maschio, visto che non ci sono delle stelle ad indicare dei piccoli orsacchiotti? Io avrei una soluzione possibile del mistero, anche se mi rendo conto che sarà molto difficile trovarne una vera "prova", tenendo presente che abbiamo a che fare con eventi realizzatisi in un tempo estremamente arcaico, forse decine di migliaia di anni fa.
Dunque… in alcuni casi il maschio e la femmina di una stessa specie presentano un notevole dimorfismo sessuale, basta pensare alla variopinta coda del pavone maschio, o alla criniera del leone, tanto che potrebbero essere scambiate a prima vista per specie differenti. Altre volte si verifica una situazione opposta, per cui anche in italiano capita di indicare alcuni animali con il genere femminile e altri con quello maschile: per esempio molti credono che il moscone sia il maschio della mosca, quando invece si tratta di due specie diverse, per quanto somiglianti.
Qualcosa di analogo potrebbe essere avvenuto per la cosiddetta "orsa", che non sarebbe una femmina di orso, ma un animale diverso: esaminando alcune raffigurazioni antiche, l'affinità è notevole con il ghiottone, o volverina (Gulo gulo),
che assomiglia vagamente a un orso di piccola taglia con una lunga coda (in effetti, non è neanche un Urside, ma un Mustelide, come la lontra o il visone). Oltretutto si tratta di un grande camminatore, capace di percorrere lunghi tratti di territorio nelle zone artiche, quindi apparentemente adatto a simboleggiare una costellazione che si muove vorticosamente intorno al polo nord celeste, mentre l'orso è generalmente piuttosto lento e pigro. Purtroppo le raffigurazioni antiche non sono abbastanza "antiche" da convalidare questa ipotesi, però può darsi che qualche nostro antenato, uno dei primi che si sia occupato di astronomia, ma poco esperto di zoologia, abbia voluto vedere in cielo la costellazione del Ghiottone, confondendola con un'Orsa, e che poi il nome e anche la sua rappresentazione grafica si siano perpetuate dalla notte dei tempi fino ai giorni nostri. Come pure può darsi che il mito abbia avuto origine nelle zone artiche, o quantomeno in quelle che un tempo erano le regioni fredde, e che la memoria delle sue caratteristiche si sia persa una volta trasportata in latitudini più meridionali, o in regioni divenute più calde con la fine delle glaciazioni, dove nessuno aveva mai visto un ghiottone. E che quindi il povero ghiottone si sia trasformato in un'orsa con la coda, o con un seguito di tre cacciatori. Possiamo aggiungere che in alcune lingue nordiche il nome del ghiottone e dell'orso hanno ancor oggi una notevole assonanza.
Riepilogando, fra tanti animali possibili candidati, il ghiottone è quello che rispetta più condizioni: assomiglia a un orso, ha la coda, ha un nome simile, non è conosciuto nelle regioni a clima mite e quindi è possibile che la sua memoria si sia persa con la fine della glaciazione. Attendo con fiducia che nei prossimi millenni qualche fortunato archeologo trovi il reperto giusto per confermare la mia rivoluzionaria tesi!

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Questo è un estratto dal lungo Capitolo 18 - Il sole e l’altre stelle, dedicato all'astronomia in Omero e nella mitologia
Immagini da Wikipedia

venerdì 7 ottobre 2016

COM’ERA FATTO L’ARCO DI ULISSE? E PERCHE’ I PROCI NON ERANO IN GRADO DI TENDERLO?


  In un precedente intervento https://astutoomero.blogspot.it/2016/05/parte-prima-chi-come-e-perche.html , abbiamo visto come tutto il racconto dell’Odissea diventi estremamente logico e realistico una volta che si cambi drasticamente la prospettiva della narrazione Omerica. Ulisse non era... Ulisse, ma colui che Ulisse stesso presenta come il migliore degli arcieri achei, cioè Filottete: un mercenario ingaggiato da Telemaco per interpretare il Re di Itaca e liberarsi di tutti i Proci. Esaminiamo ora in questa luce una delle scene più importanti dell’Odissea: quella della sfida con l’arco. Come si ricorderà, i Proci hanno tentato inutilmente di tendere l’arma, ma ora il compito spetta ad Ulisse, o a chi per esso.


Ma ora riprendiamo la nostra storia; eravamo rimasti al drammatico momento della sfida con l'arco: evidentemente, Itaca non era terra di arcieri, infatti nessuno sembra sapere bene cosa fare. Ci provano prima Telemaco e uno dei Proci, ma non riescono neanche a tendere la corda. Solo Antinoo, che ha un pochino più di esperienza, intuisce che l’arco per funzionare deve essere prima scaldato e ingrassato, per cui ordina che sia acceso il fuoco. Ciononostante, tutti i Proci, tranne Eurimaco e Antinoo, i più forti di tutti, provano inutilmente a tenderlo.
A questo punto il mendicante fa un cenno ad Eumeo e Filezio ed esce con loro dalla sala. Ed ecco che “rivela” ai due di essere Ulisse, chiedendo il loro aiuto nel compiere la sua vendetta e promettendo un premio notevole:

All’uno e all’altro darò una sposa, ricchezze darò;
e una casa innalzata accanto alla mia; pel futuro
compagni e fratelli sarete, per me, di Telemaco (XXI, 214-216)

Attenzione: non dice “sarete miei compagni e fratelli” o “sarete come dei figli”, ma “per me sarete compagni e fratelli di Telemaco”. È evidente che quello che parla non è il re di Itaca Ulisse, ma un altro. E per farsi riconoscere scosta i cenci e mette in mostra la cicatrice sul ginocchio: abbiamo già visto come tale “prova” avesse ben poco valore.
Rientrano quindi nella sala, mentre Eurimaco si lamenta di non riuscire a tendere l’arco. Per cui Antinoo, per evitare brutte figure, propone di rinviare la gara all’indomani, con la scusa che, evidentemente, il dio Apollo non vuole che si faccia sfoggio di bravura nel giorno della sua festa.
E allora Filottete, con l’aria più innocente del mondo, chiede di provare anche lui, per vedere se nelle sue stanche membra è rimasto un poco dell’antico vigore. Naturalmente  i Proci si sentono offesi ad essere sfidati da un simile pezzente, ma Penelope interviene ribattendo che se anche lo straniero dovesse riuscire a tendere l’arco, non lo sposerà, ma che gli verranno comunque tributati onori e ricchi doni. Anche Telemaco, tra le urla dei pretendenti, approva. E poi intima alla madre di ritirarsi nelle sue stanze, ordine che Penelope esegue immediatamente senza discutere, mentre il bovaro e il porcaro provvedono a sbarrare le porte per impedire ogni fuga durante la “mattanza”.
Quindi “Ulisse” prende in mano l’arco, cominciando ad esaminarlo e a palparlo accuratamente, tanto che due giovani commentano:

Certo costui era un esperto, un uomo pratico d’archi.
E forse anche lui possiede archi simili in casa (XXI,  397-398)

Chiaramente, nessuno a Itaca aveva mai visto un arco di quel tipo: probabile quindi che Filottete se lo fosse portato dietro da casa. Magari era stato nascosto tra i cosiddetti doni che Menelao aveva fatto a Telemaco: in effetti, quando Penelope lo prende per portarlo nella sala, lo estrae dalla sua custodia, che stava a sua volta in mezzo alle arche contenenti le vesti. Quindi è plausibile che nessuno l’avesse visto mentre veniva introdotto nella reggia. Ma è possibile che un gruppo di baldi giovani in pieno vigore fosse così smidollato da non riuscire a tendere la corda di un arco? Siamo alle prese con un altro intervento divino? Qui probabilmente ci troviamo di fronte a un equivoco interpretativo di natura tecnica, che può essere risolto solo conoscendo alcuni fondamentali particolari costruttivi degli archi antichi. Chi non ha pratica della materia è portato a pensare che un arco sia soltanto un pezzo di legno ricurvo con una corda tesa alle estremità. In realtà, fin dalla remota antichità, esistevano degli archi molto più complessi, costituiti di legno e corno animale, così come descritto da Omero. Ma non solo: la  corda veniva tesa tra le due estremità attraverso un movimento complicato, che consisteva nel tendere con forza, aiutandosi col ginocchio per fare leva, l’arco stesso in senso INVERSO rispetto alla sua curvatura naturale nella posizione di riposo. A quel punto l’arciere infilava la corda, già preparata con due cappi alle estremità, in due scanalature  presenti alle estremità dell’arco stesso. Si otteneva così un’arma dalla tensione e dalla portata notevole. Naturalmente una simile operazione poteva essere espletata correttamente solo da un individuo ben addestrato, e non da dei ragazzotti, è il caso di dirlo, “alle prime armi”. Oltretutto tale tipo di arco non poteva essere tenuto perennemente in tensione, dato che nel giro di pochi giorni avrebbe perso gran parte della sua elasticità e potenza. Se poi davvero si fosse trattato dell’arco di Ulisse, rimasto lì ad ammuffire per vent’anni, avrebbe potuto spezzarsi dopo pochi tiri: un rischio, ovviamente, che non si poteva correre; Omero lo sa bene, e infatti racconta che il suo protagonista osserva con cura l’arma, per controllare che non sia intaccata dai tarli. Certo, se davvero fosse stata tarlata, tutta la terribile “vendetta” di Ulisse sarebbe sprofondata nel ridicolo. Quindi bisogna pensare che l’arco fosse un attrezzo in piena efficienza, e fosse stato introdotto di soppiatto. Ecco dunque che anche questa scena, esaminata con la dovuta attenzione, perde il suo carattere miracoloso per diventare estremamente realistica.
 



 
Come si vede nella foto, le tacche dove andrebbe inserita la corda si trovano ora nel lato INTERNO dell'arco in posizione di riposo, ma verrebbero a trovarsi correttamente all'esterno una volta compiuta l'operazione di ribaltamento. Questi nell’immagine sono al museo medioevale di Bologna, si tratta di armi turche del XVII secolo, ma comunque la tecnologia è rimasta immutata da millenni,  come vediamo in un’anfora del IV secolo avanti Cristo, trovata nel kurgan di Kul'Oba, ora all'Ermitage di San Pietroburgo, che mostra un guerriero scita accovacciato nell'atto di incordare l'arco. Dietro alla schiena si intravede il gorito, la tipica custodia per l’arco e le frecce. In basso, arciere scita, da Vulci, 510 a.C., e schema di funzionamento dell’arco composto (da Le Scienze, agosto 1991).

Tali archi di ridotte dimensioni potevano essere usati stando a cavallo, per cui sono detti di tipo scitico, poiché usati per primi dagli Sciti, popoli nomadi che cavalcavano nel vasto territorio delle steppe dalla Siberia al Mar Nero.

  Una leggenda, raccolta da Erodoto, narra che Ercole aveva concepito tre figli con una misteriosa donna serpente, e le aveva lasciato uno dei suoi due archi affinché lo donasse in eredità a quello dei suoi figli che fosse stato capace di tenderlo. Il vincitore si chiamava appunto Scita (o Scite) e sarebbe stato il capostipite del popolo degli Sciti. Le analogie con le vicende che abbiano raccontato finora sono evidenti. Come spesso succede, i miti tendono a ripetersi in modo simile in luoghi e tempi diversi.

Avevamo visto che la ferita al piede di Filottete era stata causata da un serpente (secondo Omero) o da una delle sue stesse frecce (secondo altre versioni): ma forse una cosa non esclude l'altra! Gli Sciti erano infatti famosi per i veleni che usavano per rendere più letali le loro frecce, che erano preparati con una micidiale mistura di sterco, sangue umano putrefatto e veleno di vipera; per di più le frecce potevano essere munite di uncini che si spezzavano nel corpo della vittima quando si tentava di estrarle: quindi la descrizione della ferita infetta di Filottete, dolorosa, putrida e puzzolente, che può essere guarita solo con una complicata operazione chirurgica, concorda perfettamente con il danno provocato da una freccia scitica. Le guerre chimiche e biologiche non sono una invenzione della modernità! Inoltre, come segnala il Professor Giuseppe Girgenti, l’aggettivo greco «tossico» (τοξικός) non ha nulla a che vedere con la «tosse», perché deriva dal termine greco τόξον, che significa «arco» (ma anche «arcobaleno»), ed era un attributo delle divinità dotate di arco e frecce, vale a dire Apollo, Artemide ed Eros. Eraclito attribuisce ad Apollo l’armonia dell’arco e della lira, e Platone, nel «Cratilo» (405a) sostiene che erano quattro le arti tipiche di Apollo, cioè la «musica» (μουσική), la «profezia» (μαντική), la «medicina» (ἰατρική) e l’«arte tossica» (τοξική), che è appunto l’arte dell’arciere. Ora, era appunto consuetudine nel mondo greco spalmare le punte delle frecce con un veleno, il cosiddetto «farmaco tossico» (τοξικόν φάρμακον), che doveva essere letale in guerra, oppure servire solo a tramortire i grossi animali durante la caccia, come cavalli ed elefanti (come ci raccontano Aristotele, Strabone ed Eliano). Ma da qui l’aggettivo «tossico» è passato a significare qualcosa di velenoso o comunque qualcosa di farmacologico che ha l’effetto di stordire e di tramortire, cioè ogni tipo di droga.

E ora Filottete tende la corda dell’arco, prende la mira, scaglia la freccia e infila al primo colpo gli anelli delle dodici scuri, tra lo stupore generale. E Telemaco gli si mette accanto armato di tutto punto: è tempo di cambiare bersaglio
 
 
POST SCRIPTUM: 
quando guardavo le statistiche delle visite di questo sito, mi chiedevo perché ci fosse tanto interesse sull'arco di Ulisse... poi ho comprato in edicola la TOPODISSEA, che ha ristampato una storia del 2018, e ho capito...

 




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